mercoledì 28 novembre 2018

FAMILY GAMES #4, REITERATI RITI

“Di me c’è qualcosa che esiste, ecco”, l’ultimo lavoro del progetto FAMILY GAMES è una performance multimediale, un un work in progress che mira al coinvolgimnto trasversale degli spettatori in forma di work in progress, formulando domande sull’esistenza e sulla una serialità dei riti odierni, deprivati del rapporto con il sacro e destabilizzati dalla diffusione globale del consumo. 
La sua drammaturgia (video, set and costume design, testo e audio design) è stata interamente composta da un numeroso gruppo di studenti, nel corso di un workshop durato un intero anno accademico a cura di Franco Ripa di Meana, Maria Cristina Reggio, Marilena Pecoraro con la collaborazione di altri docenti dell'Accademia.

 Il punto di partenza è consistito in una serie di domande che sono state poste in forma di intervista tv a diverse persone e le cui risposte sono state condivise in un gruppo Facebook privato. Tutti i testi della performance sono stati tratti dalle risposte date dagli intervistati e rielaborati, registrati, montati , ripetuti e riutilizzati come testo vocale e teatrale. L’azione si snoda partendo da quelle stesse domande che vengono poste dai performer anche agli spettatori seduti sulle sedie disposte nel palcoscenico: le loro risposte, filmate attraverso smartphone e caricate sul gruppo privato Facebook, vengono proiettate ingigantite sulle pareti, mentre al centro dello spazio teatrale troneggia un simbolico vescovo - operatore di smartphone. 

Di che famiglia sei, quale è il tuo rito?
Cosa fa si che un certo gruppo di corpi di animali o di piante o di esseri umani sia considerato una famiglia? Non ci si riferisce alle istituzioni religiose o sociali, ma piuttosto a una classificazione che pone a sua volta qualche dubbio su quali siano i criteri per determinarla. Quindi non è necessario che ci sia un padre o una madre o figli e parenti, ma che ci sia una comunità di esseri viventi affini, riuniti in un certo luogo e intorno a qualcosa di comune. Questa cosa comune può consistere semplicemente nel bisogno di stringersi vicino all'altro per questioni di affinità, riunirsi intorno a qualcosa come un tavolo, un pranzo, una casa, unitamente all'avversione verso chi è fuori, chi non fa parte del proprio gruppo. Questo il nodo su cui ci si concentra da qualche anno: cosa significa per noi e per il nostro corpo abitare le nostre piccole comunità?

Qual è il tuo rito?

La quarta annualità di FAMILYGAMES si è soffermata sulla necessità che abbiamo, oggi, di riprodurre alcuni riti, deprivati della religiosità cristiana che per secoli ha caratterizzato la cultura occidentale e destabilizzati nella loro unicità dalla diffusione globale mediatica del consumo. Di fronte alla Chiesa che assume toni e modi comunicativi veicolati dai mass media e dalla cultura pop, le persone disertano i riti sacri e gli spazi ad essi consacrati, restringendo lo spazio del rito alla propria persona, alla propria casa e alla propria piccola comunità, oppure dilatandolo nelle anonimie ed eteronomie individuali della rete. Il rito perde così la sua sacralità anche nel linguaggio comune, diventando un fenomeno quotidiano più vicino all'abitudine e al gioco piuttosto che all'azione propiziatoria o religiosa. La domanda allora che ci si è posti è stata la seguente: se non abbiamo più riti sacri condivisi che ci restituiscono un'immagine certa della nostra vita sociale, quale comunità si crea intorno ai nuovi riti quotidiani che costellano le nostre piccole esistenze di abitanti del villaggio globale?

Dai frammenti al montaggio con la regia di Franco Ripa di Meana

Quest'anno il progetto FAMILY GAMES ha cambiato formula operativa, e, piuttosto che lavorare ciascuno sulla propria personale concezione ed esperienza di comunità e famiglia, producendo singoli video personali, si è deciso di sperimentare una forma nuova di condivisione del lavoro che include diversi laboratori interconnessi. Per prima cosa, si è tentato di mettere dunque in discussione il linguaggio che connota la relazione tra sé e gli altri. Tutto è iniziato dal porsi e porre domande, individuando nelle risposte il testo che avrebbe composto le parole su cui lavorare: la loro scrittura, il loro colore, il loro suono, il loro ripetersi fluido come testo scritto e parlato. Questo è stato un principio compositivo messo in opera dal regista Franco Ripa di Meana, con cui è iniziata quest'anno una proficua collaborazione, e che da diversi anni organizza nelle Accademie di Belle Arti italiane workshop di regia che confluiscono in performance finali. A lui si deve attribuire il sapiente lavoro di selezione e montaggio realizzato sui frammenti che abbiamo creato nei laboratori: un procedimento di montaggio che non è da considerarsi nella sua accezione meccanicistica, ma piuttosto come un principio compositivo che organizza e fa crescere, mano a mano, qualsiasi opera.

Partendo da alcuni primi sondaggi, realizzati utilizzando i sistemi di ripresa audiovisiva professionali e non, si è lavorato per accumulazione, portando in ogni sessione di laboratorio di regia, i materiali di performance e di video che mano a mano si costruivano anche nei laboratori di Anatomia del corpo vivo: azioni fisiche singole e collettive progettate dagli studenti di arti visive, azioni riprese dagli studenti di arti multimediali, video-interviste e incisioni audio preparati dagli studenti di arti visive e arte per la terapia

Con il Collettivo Cinetico

A metà del percorso è intervenuta un'esperienza che ha plasmato la piccola comunità dei partecipanti, il workshop condotto in accademia dal Collettivo Cinetico, che ha dato una sferzata potente all'idea che si potessero superare i confini dei campi disciplinari in Accademia: ciascuno si è trovato con il proprio corpo di fronte a quello dell'altro, in un percorso che aspirava alla conoscenza di sé e di chi gli stava accanto, esplorando attraverso la performatività i confini di una nuova comunità nascente ed effimera, il gruppo di FAMILY GAMES. Alcuni esercizi sperimentati con il Collettivo Cinetico sono entrati nel nostro laboratorio e rimasti nella memoria condivisa, plasmando le modalità di incontro tra i corpi individuali e sociali, e confluiti, insieme a tutte le altre esperienze di un anno di lavoro, nell'ossatura della performance finale.

Descrivere la performance Di me c'è qualcosa che esiste, ecco, non è possibile, come non si può narrare in differita ciò che è successo in venti minuti dove si concentrava il lavoro di sei mesi. Si può solo pensare di avere sperimentato un modello di lavoro condiviso nel quale il corpo e la vita dei partecipanti sono elementi vivi, germinali e al tempo stesso compositivi della performance. Un modello che aspetta solo di essere ripreso, rielaborato, modificato, perfezionato. Dove i performer non sono artisti-attori professionisti di fronte a un pubblico, ma osservatori partecipanti e creativi della realtà in cui vivono. Infaticabili corridori che saltano, cercando di superare i propri limiti, finché ne hanno le forze.

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