di Massimo Carboni
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Genius deriva da gignere, cioè ʽgenerare’. Siamo dunque nell’ambito della
natura. ‘Genio’ significa, nella sua più remota e arcaica accezione, il nume
tutelare, lo spirito protettore, l’assistente invisibile e angelico che veglia
sulla forza procreativa, sulla capacità generatrice del nucleo familiare. Il
germe che porterà alla teoria moderna del genio lo si trova sostanzialmente nel
Fedro platonico, ed in particolare nella trattazione della mania: l’esaltazione
naturale, l’ebbrezza, l’estasi come stati divini, e che Cicerone tradurrà
significativamente con furor, termine-chiave per comprendere le poetiche
artistiche sia di Leonardo che di Michelangiolo. Quasi senza accorgercene, siamo
passati dalla natura all’arte, o meglio stiamo transitando pendolarmente
dall’una all’altra. Siamo quindi all’interno del processo di secolarizzazione,
cioè di smitizzazione e laicizzazione, dell’antica credenza greca nel daìmon,
l’essere soprannaturale che conduce, in noi e nella nostra psychè, un’esistenza
del tutto indipendente, ma che nello stesso tempo collega direttamente il nostro
destino individuale all’ordine cosmico e alla totalità dell’essere. Da
protettore privato, caratteristico di ciascuno, il genio naturale diventa segno
della superiore potenza creativa che può incarnarsi solo in pochi privilegiati
ed in particolare negli artisti e negli scienziati. Nel significato moderno del
termine, all’etimologia risalente all’atto procreatore si aggiunge, o meglio si
intreccia, l’etimologia che riconduce all’ingenium come opposto dell’ars: il
primo si riferisce all’abilità naturale non acquisita, alla disposizione innata;
il secondo al sapere accumulato con l’esperienza, alla capacità tecnica
imparata, ottenuta con l’applicazione continua.
La prima formulazione moderna, e
ancora perfettamente attuale, della teoria del genio si trova nella Critrica
della facoltà di giudizio di Kant. Certamente davanti ad un’opera d’arte occorre
mostrarsi consapevoli che si tratta di un oggetto prodotto non dalla natura ma
dall’ars, dunque di un artificio umano. Eppure, nello stesso istante, scrive
Kant, «la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni costrizione a
regole volontarie, come se fosse un prodotto semplicemente della natura»1 .
I. Kant, Critica del Giudizio (1970); trad.it. Laterza, Roma-Bari 1970, p. 165, corsivo ns.
La
forza plasmatrice della natura si prolunga nel dominio dell’arte, in modo che
l’apparenza sensibile di questa possa o debba ricondurci a sua volta, quasi in
un percorso a ritroso, alla potenza germinante, alla vis autogenerativa
dell’elemento naturale, spontaneo, indeducibile. La creatività dell’uomo artista
si cristallizza in un oggetto artificiale; eppure, sebbene appunto originato
dall’applicazione di una volontà soggettiva, la finalità di tale oggetto deve
apparire autodeterminata, perfettamente causa sui: «l’arte bella deve
presentarsi come natura, sebbene si sappia che è arte», scrive Kant nella stessa
pagina. Pur lasciandoci razionalmente consapevoli che si tratta di arte, il
bello che l’opera d’arte esibisce portandolo alla luce deve manifestarsi in
quanto natura, forza spontanea. Quasi risalendone l’accezione arcaica (che anzi,
in un passaggio del § 46 viene esplicitata), Kant riconduce la nozione di genio
all’agire stesso, inconscio e oggettivo, impersonale e sovraindividuale della
natura, che guida il soggetto e attraverso questo agisce e produce. E’ la
disposizione innata dell’animo, sorgiva, in-fondata, che fornisce all’arte la
regola in base alla quale questa può realizzare i suoi prodotti, le opere. Se la
natura, mediante il genio, dà la regola all’arte, allora tali prodotti sono il
risultato di una “composizione” che è insieme ed inestricabilmente oggettiva e
soggettiva: «bisogna», scrive Kant, «che la natura dia la regola all’arte nel
soggetto»2 . Nessuna regola determinata può rendere ragione né del genio né della
sua opera, altrimenti il giudizio estetico sarebbe determinante-deduttivo e non
riflettente-induttivo: in arte si dà sempre e soltanto il particolare sensibile
e singolare, mai l’universale astratto e generale. Dunque l’originalità del
talento e la novitas che da questa consegue sono suoi tratti specifici ed
immanenti. Deve trattarsi però di una originalità esemplare. Che cosa significa?
I prodotti del genio non devono scadere in facili ed eccentriche stravaganze, in
eccezionalità posticce: l’arbitrio, il puro fantasticare non hanno nulla di
geniale. Devono piuttosto porsi come esemplari, paradigmatici, e seguire una
disciplina basata su leggi formali-costruttive, alla quale però non possono
essere ridotti: l’opera d’arte non scaturisce dall’applicazione di una formula.
Nell’ambito della creazione artistica, dobbiamo perciò parlare di modelli non da
imitare pedestremente, ma da seguire e a cui guardare proprio perché appaiono in
grado di suscitare o risvegliare, in coloro che ne ricevono la forza maieutica,
il sentimento dell’originalità ed il coraggio di sviluppare a loro volta e
individualmente la pratica immaginativa ed operativa dell’arte còlta ed
esercitata nella sua relativa indipendenza da regole prescrittive. L’opera
d’arte del genio fornisce regole in assenza di regole e da questo punto di vista
di nuovo si può paragonare, assimilare alla natura. «E’ difficile spiegare come
ciò sia possibile»3 , ammette Kant. Eppure, più di questo, non è possibile: il
genio è eo ipso, in se stesso incomunicabile, e l’artista che lo possiede (e da
cui è posseduto) non saprà mai spiegare metodicamente −come invece, ad esempio,
lo scienziato sa fare −le tappe del processo creativo che lo ha portato a
realizzare l’opera. La scienza si può insegnare e si può imparare, il suo
procedere analitico è, per così dire, “reversibile”, può percorrersi in entrambi
i sensi, potendosi quasi sempre, dal risultato finale, risalire all’inizio che
l’ha originato. Quella che Kant chiama l’“arte bella” per distinguerla dalla
generica capacità tecnica di produrre manufatti, non è al fondo né insegnabile
né apprendibile, la si può soltanto mostrare, esibire, presentare esemplarmente,
perché è originata da una genialità naturale che nella sua essenza è
irrisalibile ed impartecipabile.
2
Una riflessione, sia pure estremamente
sintetica, merita il rapporto che viene ad instaurarsi tra la natura e le
neotecnologie. Sembra che più la tecnica –proprio inoltrandosi nella definitiva
artificializzazione– si allontana dal dato naturale, al contempo più ne
riproduce le caratteristiche, ne prende a prestito e ne mima, per così dire,
l’interno funzionamento. La tecnica aspira a diventare completamente automatica,
autopoietica, autogenerativa. Esattamente come da sempre è la natura:
spontaneità creatrice, germinazione causa sui.
Si prenda il ciberspazio della
realtà sintetico-virtuale: l’occhio “tocca” l’ambiente circostante, la mano
“vede” gli oggetti. Il massimo grado raggiunto dall’artificio ipertecnologico ci
riporta paradossalmente al chiasmo, all’incrocio naturale, all’integrazione
arcaica dei nostri sensi interconnessi e sovrapposti nel corpo. Nel virtuale non
c’è più proiezione-distanziamento, non c’è più (come invece permane
nell’immagine tradizionalmente intesa) separazione oggettiva tra vedente e
veduto, senziente e sentito (ed è interessante ricordare che anche l’esperienza
mistica comporta questa fusione di soggetto e oggetto). La finzione sintetica
viene direttamente esperita dal e nel nostro corpo come presenza
naturale-attuale. E qui possiamo fare un esempio tratto proprio dalle arti. In
particolare dalla musica elettronica, che ci riserverà sicuramente molte
sorprese nel prossimo futuro per quanto riguarda l’elaborazione sempre più
raffinata del suono. Proprio perché, un po’ come il cinema, è nella
riproducibilità che essa trova la sua essenza costitutiva, la musica elettronica
si dà sempre, per così dire, in tempo reale: ed è qui che risiede –da Karlheinz
Stockhausen in poi– la sua dimensione rituale, cultuale, estatica. In un certo
senso, siamo di fronte ad una forma inattesa di rinascita dell’aura all’interno
delle tecnologie attualmente più avanzate, che sanno riabilitare nel flusso
sonoro il valore magico, auratico per l’appunto, dell’hic et nunc come
esperienza estatico-esistenziale.
Op. cit., p. 166, corsivo ns.
Op. cit., p. 168
Con il mezzo elettronico, il musicale
riattinge all’ampiezza naturale dei possibili, alla libera autonomia espressiva
che non solo le costrizioni tonali e poi dodecafoniche, ma anche i limiti
esecutivi imposti dalla strumentazione acustica le avevano nel tempo in larga
parte sottratto. Ciò conduce –ecco il passaggio decisivo– ad un riaffondo, ad
una nuova immersione nell’originaria, naturale ricchezza e vitalità naturale del
mondo sonoro nel suo complesso e del suono singolo come concretezza percettiva e
immediatezza fisico-acustica. Si pensi al live electronics, vale a dire la
trasformazione e l’elaborazione del suono e della forma compositiva –ormai non
più predeterminata– in tempo reale, evento che coinvolge l’ascoltatore nella
genesi stessa, nella scaturigine delle sonorità. Questa sorta di riacquisizione
precategoriale –cioè antecedente ad ogni riflessione
intellettualistico-razionale– indica in certo modo un insperato ritorno alla
natura realizzato via tecnologia elettronica, fa segno verso un disvelamento
espressivo delle radici immemoriali della physis da parte della techne condotta
al suo massimo grado di artificialità, gestita però da intenzionalità estetiche
soggettivamente quanto liberamente costruttivo-compositive. Non, dunque,
l’impossibile, ineffettuale negazione della tecnica, ma al contrario la sua
programmatica assunzione all’interno della progettualità inventiva può, da
questo punto di vista, rivelarsi il mezzo paradossalmente più idoneo per
riattingere a quell’essenza umana colloquiante con la natura che (contraddizione
istitutiva e perciò ineludibile) proprio la tecnica, nella sua dispiegata
volontà di dominio dell’ente, nello stesso tempo espone al pericolo
3
Se
osserviamo attentamente, ci accorgiamo che per almeno due volte, in due distinte
inquadrature del celebre La passione di Giovanna d’Arco (1928) del regista
danese Carl Theodor Dreyer, una mosca si posa e zampetta per qualche secondo sul
viso dell’attrice Renée Falconetti, che interpreta –in maniera rimasta
memorabile nella storia del cinema– la protagonista Giovanna. Inesplicabile ed
imprevisto, un frammento di reale –in tutta la sua immediatezza, in tutta la sua
singolarità– fa a suo modo ingresso permanente nell’immagine. Il regista non
taglia in montaggio le due inquadrature, lascia che questo minuscolo,
insignificante incidente resti per sempre integrato nella sua opera. Non si
tratta affatto di una programmatica accettazione del caso. Dreyer non è un
dadaista né un surrealista; è un autore rimasto celebre per il suo rigore
formale, per la sua capacità di controllo e di dominio del set e del linguaggio
filmico. L’episodio semmai indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera
d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare
radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che
irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile ove domina incontrastata
l’equiprobabilità dell’accadere. Siamo cioè di nuovo nel seno della natura.
Da
questo punto di vista, nel cinema dell’istante qualunque, per così dire “senza
cornice”, pensato come ricettività totale della vita, come apertura
sull’accadere, il quotidiano –nella miriade dei microeventi che lo compongono ed
in cui si disperde, nell’incalcolabile ed irriflessa contingenza che c’è prima,
comunque e indipendentemente dal fatto che venga intenzionata o meno– il
quotidiano dunque si fa spettacolo integrale continuo, assoluto. E nello stesso
tempo, con un unico e medesimo movimento, la tecnica lavora alla scomparsa di se
stessa, si rivela in prima istanza come tecnica che si legittima e s’invera
nella propria autoabolizione: una sorta di detecnicizzazione attraverso la
tecnica. Sotto questa prospettiva, l’accadere inintenzionale, la contingenza
incontrollabile tramite cui l’opera rimane agganciata all’immediatezza del
reale, può offrirsi ad una duplice lettura. Per un aspetto, come ultima traccia
della mania, della follia poetica ispirata dalle Muse, di cui parla Platone nel
Fedro (e le parole dello stesso Dreyer –la mosca come «dono del cielo»– ce lo
confermerebbero). Per un altro e complementare aspetto, essa –in quanto fatto
naturale, spontaneo, in quanto datità fenomenica elementare e irrisalibile– è il
punto in cui la techne, attraverso tyche, l’incontro fortuito, attinge al suo
principio opposto, alla physis Ed in quest’ultima si rovescia. O meglio: il
punto in cui arte e natura diventano misteriosamente indiscernibili l’una
dall’altra. Come nella memorabile clausola –non importa quanto eccessiva
nell’entusiasmo dei tempi– della recensione di André Bazin a Ladri di
biciclette: «Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena,
cioè finalmente nell’illusione perfetta della realtà: niente più cinema» .
D’altra parte lo stesso Dreyer ripeteva, alla stregua di un principio di
coerenza poetica, che dobbiamo servirci della macchina da presa per sopprimere
la macchina da presa. Cinema dunque come arte utopica dell’inintenzionale
assoluto, impegnato a restituire un reale naturale; cinema come scomparsa del
cinema, dunque fantasma di un fantasma che tuttavia vuole recuperare la presenza
pura e immediata. Cioè quella che non può mai darsi come tale. Perché è del
tutto evidente che si può cogliere la vita “sul fatto”, sui può sorprendere in
flagrante la “prosa del mondo” suscitando effetti di naturalità e immediatezza,
soltanto ed unicamente attraverso il suo opposto complementare, cioè solo
attraverso la mediazione dell’apparecchiatura tecnologica: il massimo della
verosimiglianza si può ottenere solo attraverso la prestazione di una macchina,
di uno strumento, ed è a tutti gli effetti il risultato di una manipolazione, di
un artificio, vale a dire il contrario del dato naturale. Ars celare artem, così
dicevano i latini: bisogna imparare l’arte di nascondere l’arte. Questo devono
imparare coloro che si sentono chiamati non soltanto a fare gli artisti ma ad
esserlo.
A. Bazin, Che cos'è il cinema? (1958-1962); trad. it. Garzanti, Milano 1973, p.318.
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