Plurimo - Identità murate, installazione site-specific, 2014 |
Come nellʼesperienza di Mnemosyne a Sassari (2013), anche questo progetto di Anna Maiorano a
Firenze, Plurimo - Identità murate, compone il lavoro individuale di molte persone in un rito collettivo
che le aggrega e le conduce ad agire ponendosi regole, tempi e azioni stabilite
con rigore. Il risultato è unʼopera in cui la memoria singola di diversi
individui si mette in relazione e diventa memoria collettiva e condivisa.
In un piccolo ufficio quasi inaccessibile al pubblico, in
fondo a un lungo corridoio cui si accede da una porta sulle scale dellʼAccademia,
ci si imbatte in un enigmatico archivio. É in uno spazio polveroso, vissuto ma ora
disabitato, che fa pensare vagamente allʼambiente inquieto di unʼinstallazione
di Gregor Schneider, con scaffali e schedari metallici e una scrivania ancora
piena di vecchie carte, con pochi elementi che guidano lʼesplorazione visiva:
ai muri sono appese diverse schede identitarie, ciascuna delle quali è
compilata a penna con al centro una foto segnaletica, mentre un piccolo e vecchio
televisore in bianco e nero e un grande schermo digitale narrano simultaneamente e in loop lo stesso racconto. Le decine di schede identitarie affiancate una
allʼaltra sembrano rielaborazioni paradossali dei portraits parlés inventati
alla fine dellʼ800 dal criminologo francese Alphonse Bertillon, forme di identificazione
segnaletica ormai quasi desuete (antesignane delle attuali carte di identità),
nellʼepoca digitale del DNA, dei nickname, degli avatar, delle password e delle
illusorie protezioni della privacy.
Sono le foto di tanti ragazzi, di diversa nazionalità e
provenienza, tutti iscritti allʼAccademia, che hanno realizzato - in un tempo
trascorso ma imprecisato - un rito collettivo nel quale hanno raccolto le loro
foto contornate dalle loro informazioni personali rigorosamente tradotte in
quattro lingue diverse (italiano, inglese, persiano, cinese) da un gruppo di
misteriosi traduttori in occhiali scuri.
Nei due video - uno in un unico piano sequenza in bianco e nero e lʼaltro
a colori e realizzato con meticoloso editing digitale, trapela la serietà e
compitezza dei gesti ordinati e ripetitivi dei giovani mentre si dedicavano a
questo rito. Dava inizio e fine allʼazione una doppia sirena lugubre, il cui
timbro ricorda gli allarmi per la fuga durante i bombardamenti nellʼultima
guerra: una guerra che nessuno di loro ha mai conosciuto personalmente, e che
pochi di loro, soprattutto se cinesi o iraniani, ricordano per averne sentito
parlare almeno dai nonni. Hanno però conosciuto altre paure che li hanno messi
in riga, altri allarmi, altre guerre diverse.
La loro assunzione diretta del compito di
autoidentificarsi in un rito collettivo nel quale sono gli oggetti dellʼazione,
ma ne diventano anche i soggetti, sembra testimoniare la loro volontà di
assumere la consapevolezza di essere stati in luogo dato e per un tempo
definito e ormai finito, un gruppo composto da persone diverse che hanno
abitato uno stesso spazio, forse anche unʼaula di una accademia, di unʼuniversità,
uno spazio comune, timbrando lo spazio con le immagini dei loro visi. Insieme, sono stati là. E le foto che
tappezzano le pareti si offrono allo sguardo evocando la malinconia di quel
momento passato e irripetibile - potenza cimiteriale della fotografia, come già
accennato da Roland Barthes e Susan Sontag - sottolineato dallʼetà giovanile
degli individui fotografati. Un archivio che, con una geniale intuizione
site-specific dei curatori, è mèta, come si è detto, di un kafkiano percorso
attraverso piccoli corridoi, scalette, svolte improvvise e piccole porte aperte
tra tante porte inaccessibili (il piccolo locale è un ex ufficio dellʼuniversità
di architettura). Tutto sembra evocare solo la memoria di qualcosa che, pur avvenuto
di recente, non cʼè già più, la presenza di un passato ormai concluso. Tuttavia
qualcosa non è stato scritto, ma è rimasto volatile, solo affidato al sonoro
del monitor digitale che restituisce, una per una, le decine di voci diverse dei ragazzi a cui è
stato chiesto di definirsi in una sola
frase. Le risposte attraversano lʼaria
dello stanzino e si succedono, una dopo lʼaltra, proiettando lʼascolto presente
in un futuro imprecisato: la testimonianza plurima diventa così memoria di un
passato prossimo e anticipazione di un futuro che aspira a diventare tanto
intimo quanto condiviso.
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