martedì 8 ottobre 2013

PROGETTO MNEMOSYNE



Massimo Carboni

Il progetto Mnemosyne realizzato all’Accademia di Belle Arti di Sassari pone per definizione al suo centro il tema cruciale della memoria. Ma di quale memoria si tratta? Intanto, si potrebbe dire che questo progetto si rivela uno dei tanti modi di trasformare la memoria sociale in memoria collettiva. Se la prima è una memoria senza soggetto portatore specifico, affidata alla trasmissione anonima tipica dei mezzi di comunicazione di massa, la seconda esiste e si concretizza invece in virtù di un gruppo che in maniera autonoma e deliberata è capace di farla vivere attraverso il montaggio delle singole memorie individuali, e che in quella memoria trova appunto la sua identità.


Quelle rilasciate in video dai docenti che hanno insegnato nell’Accademia sono testimonianze, ed i docenti sono dunque testimoni di ciò che si è fatto in quel luogo, del lavoro che vi si è svolto, dei rapporti che si sono instaurati con gli allievi, degli obbiettivi che vi sono stati raggiunti. In latino vi è una doppia etimologia per la parola ‘testimone’: testis è colui che è terzo in un procedimento giudiziario o in una contesa tra due soggetti nell’occasione avversari, il contributo del quale può dunque risolvere il processo o dirimere la contesa; superstes è invece colui che ha vissuto di persona un evento fino alla sua conclusione ed è quindi in grado di raccontarlo, di renderne appunto testimonianza. Se appare evidente che non possiamo in questo caso utilizzare la prima accezione del termine, basta una breve riflessione per convincersi che neanche la seconda accezione è qui appropriata. L’Accademia, l’oggetto stesso della testimonianza, non è infatti un fenomeno concluso nel tempo e nello spazio, qualcosa che è diventato tradizione e di cui dunque si può scrivere la storia; l’Accademia è −nel tempo presente in cui pur se ne fa memoria− una realtà vivente, produttiva, in itinere. Basterebbe, per comprendere questo punto cruciale, pensare a due elementi, peraltro ben evidenti. Il primo è che ognuno dei docenti ha contribuito in grande o in piccola parte a trasformare, a plasmare, con il lavoro svolto durante la sua permanenza in Accademia, l’oggetto stesso della sua testimonianza, che si rivela così un oggetto dinamico, in fieri ed inscindibile dal soggetto che lo ha eletto a proprio referente. Il secondo elemento è che le testimonianze non ricostruiscono né restituiscono tanto date e nomi, quanto −in una pluralità di voci, gesti, parole− correnti di esperienza, tonalità affettive, modalità viventi di riconvocare il passato, fosse pure quello più prossimo. Siamo dunque di fronte non a descrizioni ma a narrazioni, perché la memoria è stata sempre intimamente legata al racconto, dunque anche all’elemento retorico-finzionale.


Questi video ci consegnano un tipo di memoria non scritta che è stato prevalente fino al Medioevo, una memoria cioè a carattere orale-gestuale (ecco l’importanza del supporto audiovisivo che ha permesso di creare quella che poi è risultata una grande video-installazione), legata quindi fisicamente alla persona del soggetto portatore, una memoria di parola parlata e agìta, in cui il momento estetico-espressivo si intreccia con il momento razionale-conoscitivo, talora superandolo. Nell’antica Grecia, gli mnemones (dei quali l’histor è l’erede) erano funzionari pubblici incaricati della conservazione orale e della trasmissione vivente della memoria. I docenti che hanno lasciato la loro testimonianza potrebbero dirsi gli odierni “memorizzatori” di una realtà ancora pulsante e precisamente per questo non ancora conclusa, non ancora de-finita in un dato oggettivo.

Ma questa non è altro che la conferma del fatto che la tradizione esiste solo in virtù della sua stessa costruzione, nell’interminabile gioco della trasformazione e della variazione; che non esiste in nessun luogo una verità pre-costituita che si tratterebbe di raggiungere e finalmente conquistare e possedere una volta per tutte; che la testimonianza non riproduce una verità già data perché la memoria non si limita ad immagazzinare dati e cifre ma a creare itinerari, ad approntare percorsi assieme alla loro stessa rilettura. Questo con ogni evidenza significa che la memoria è sempre costitutivamente intrecciata all’oblìo: si tratta di fenomeni, di pratiche congiunte, perché non può darsi conservazione integrale del passato. Memoria e oblio non sono affatto antitetici, altrimenti non potrebbe sussistere, come invece di fatto sussiste, una consapevolezza della dimenticanza: qualcosa come la memoria implica la consapevolezza sia nei riguardi di se stessa sia nei riguardi del proprio contrario. L’oblìo è dunque una delle condizioni della memoria. Resta del tutto evidente infatti che conservare significa ipso facto, scegliere, selezionare, costruire. Ogni forma di memoria (dunque ogni racconto) è una registrazione documentale, ma proprio per questo è una ricostruzione parziale e selettiva del passato, un passato che solo e soltanto in quella memoria (in quel racconto) può dispiegare la sua ‘vita postuma’. La memoria quindi non è un deposito a disposizione in cui recuperare una verità “in sè” ed al quale attingere per riabilitare, riscattare o riscoprire volta per volta ciò di cui abbiamo bisogno, ma è piuttosto un campo dinamico e plurale attraversato da attriti, conflitti, deformazioni e alterazioni non accidentali ma strutturali.
Non esiste dunque una “verità” dell’Accademia se non nell’intreccio di questi racconti, se non come montaggio, come ricostruzione generativa di cui queste testimonianze che attestano una forma plurale della memoria rappresentano gli indispensabili tasselli, i necessari passaggi, gli insostituibili passanti per un tragitto ancora in corso. Ecco perché in quella sorta di “enciclopedia orale” che Mnemosyne rappresenta, l’Accademia di Sassari viene riscritta con tutto ciò che essa ha rappresentato e continua a rappresentare in quanto luogo istituzionale di cultura, di produzione, di trasmissione di tecniche, attitudini, esperienze, saperi.




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