Franco
Speroni
Intimi
in Hotel riprende
il filo del discorso avviato dalla MICROGalleria con Monticelli & Pagone
nel 2008 in Lezione di anatomia. Il
lavoro site specific di M&P in quell’occasione metteva in scena il
corpo esposto e il tema del doppio, i dispositivi della costruzione del corpo
nel sistema della moda attraverso gli oggetti: tacchi a spillo e sneakers, tessuti/textures camuffamento e svelamento di un corpo privato e pubblico
che si racconta attraverso le sue tante pelli identitarie, “naturali” e
“artificiali”.
Tema centrale un corpo, dunque, che non è mai
“in sé” ma sempre in relazione, con lo sguardo e con il luogo. Un corpo testo esibito in un ambiente a sua
volta costruzione testuale in un sistema di oggetti dentro luoghi che si
susseguono l’uno all’altro.
“Il
corpo rivestito è il territorio fisico-culturale in cui si realizza la
performance visibile e sensibile della nostra identità esteriore. In esso, testo-tessuto
culturale composito, trovano modo di esprimersi tratti individuali e sociali
che attingono a elementi quali il genere, il gusto, l’etnicità, la sessualità,
il senso di appartenenza a un gruppo sociale, o viceversa la trasgressione”.
Questa definizione composita di corpo che,
organicamente alla Fashion Theory, ha
dato Patrizia Calefato (Fashion Theory,
in Dizionario degli Studi Culturali,
a cura di Michele Cometa, Meltemi 2004), sintetizza bene come il corpo sia una
tra le produzioni testuali estetiche
contemporanee più importanti dove la società intreccia conflitti legati
all’identità e al genere. L’arte stessa ha giocato e gioca un ruolo nella
costruzione di queste testualità. La decostruzione dei ruoli tradizionali nella
filiera produttiva di tutte le forme testuali, arte compresa, è diventata
quindi un’analisi connotata di sensibilità esibita attraverso perfomances e/o installazioni site specific. Come accade, del resto,
nello stesso sistema della Moda dove la performance
ha preso il posto della sfilata nell’esibizione di un corpo che non tanto si
mostra quanto, piuttosto, si racconta
e raccontandosi mette a nudo insiemi di relazioni.
L’identità non è una radice bensì una
relazione che si determina tra un “noi” e gli “altri” attraverso una molteplice
attività di comunicazione/relazione che ci dà forma storica. Di conseguenza
l’attività didattica e di ricerca della MICROGalleria
sviluppa sempre più un’ “anatomia” identitaria “postmoderna” toccando tematiche
come queste appena accennate attraverso il lavoro sul corpo e sui luoghi: sul
territorio pubblico/privato nel quale si esercitano le relazioni
intersoggettive. L’anatomia del corpo è quindi anche anatomia del comportamento
e, di conseguenza, anatomia dei luoghi abitati che non sono contenitori neutri
ma meccanismi relazionali. Da qui, la stretta connessione tra corpo e
produzione/ricerca site specific, tra momento ideativo e performativo,
nel senso di reazione concreta al luogo abitato, nel quale si svolge un’ipotesi
narrativa. Sempre da qui, anche una
naturale vocazione “etnografica” a leggere la connessione tra caratteristiche
dei luoghi e comportamenti, per mezzo del video, pratica documentaria
disvelatrice di implicazioni non percepibili ad occhio nudo.
Intimi
in Hotel
è un lavoro a “otto mani” come dicono le due galleriste Cristina
Reggio e Anna Maiorano, pensato da due donne per il corpo di
due artisti maschi, Monticelli e Pagone,
che effettuano l’azione. Quali sono gli ingredienti di base di questa
nuova tappa della ricerca?
Innanzitutto mi sembra che la MICROGalleria , con l’azione ancora più partecipante
delle due galleriste, venga sempre più a fondere i vari ruoli della produzione
dell’arte e quindi a mescolare molto le diverse testualità e con esse i generi.
Ora, non solo lo spazio ma le stesse galleriste/artiste entrano in maniera
decisa “in azione”. Sono loro che seguiranno e spieranno i due “maschi” in una
dinamica fetish che consiste ancora
di dettagli vestimentari che sottintendono relazioni.
Il fetish
trasforma il corpo in un insieme di dettagli sessuali connessi, secondo Valerie
Steele (Fetish, Meltemi 2005), che
innestano potenziali inviti narrativi, ipotizzano trame che spostano lo sguardo
e quindi il desiderio dalla contemplazione della forma al piacere delle
connessioni e delle implicazioni.
M&P espongono se stessi nella hall di un
hotel ritratti in gigantografie di gusto pubblicitario e contemporaneamente
sono presenti in loco; conversano tra loro e girano poi nelle camere
dell’albergo dove vengono esposte opere di altri artisti. Le due galleriste li
seguono e li riprendono con la videocamera praticando un’inversione dei ruoli
maschile - femminile (almeno secondo un immaginario stereotipo).
Il corpo maschile, nella storia della
pubblicità e pertanto in un campo notevole della storia della cultura del
corpo, ha avuto alcuni momenti forti di esposizione. Uno dei casi più noti è
stata la pubblicità d’intimo maschile di Calvin Klein nel 1982 a Times Square
e, su questa scia, i nuovi “kuroi” delle
pubblicità di Armani incarnati da Beckham, che ribadiscono l’asse semantico
bellezza/atletismo/seduzione. Qui, la seduzione passa attraverso un modello
basato sulla vista erotizzante ma sempre astraente della perfezione atletica
del corpo. Un punto di vista sostanzialmente maschile che affonda le sue
origini nella classicità. Eccezioni in tal senso si trovano solo quando dal
modello del “kouros” classicheggiante, si passa ai generi di consumo giovanile
o a marchi più propensi al feticismo transgender e bisex (come Thierry
Mugler), o comunque all’inversione dei ruoli, come in alcune pubblicità Sisley
(di Terry Richardson, ad esempio) dove torna preponderante, non a caso,
l’aspetto fetish narrativo. Allora l’erotismo transita dalla forma
“perfetta” al dettaglio “deviante”, in un gioco di erotizzazione e desublimazione che sembra
ricordare il ruolo positivo dell’abiezione
per Julia Kristeva (Poteri dell’orrore.
Saggio sull’abiezione, Spirali 1981) nella ridefinizione dei vari soggetti
sociali e nelle dinamiche di costruzione identitaria.
Reggio e Maiorano, come accennato, passano
all’azione. Entrando nella performance nella veste ambigua di documentatrici di
reazioni impreviste del pubblico della mostra d’arte, ma anche di attrici parte integrante del senso della performance, mettono in atto la
complessità dei ruoli. In tal senso, la performance
a “otto mani” sembra assomigliare nelle intenzioni a quanto accade nella
produzione pornografica “indi porno”,
cioè in quelle produzioni indipendenti dall’industria pornografica
tradizionale, nelle quali l’immaginario “Queer” dell’identità di genere fluida
svolge un ruolo alternativo agli stereotipi della meccanicità coatta
dell’industria porno tradizionale. E questo mi sembra un altro elemento
interessante di questa performance
che fonde i ruoli delle galleriste e degli artisti proprio dentro una rassegna
d’arte, là dove cioè, più che in ogni altro luogo, i processi culturali di
sublimazione, attraverso la rappresentazione, hanno avuto la loro origine.
Qui, nel “mondo dell’arte”, le due
galleriste/artiste che spiano Monticelli e Pagone e nello stesso tempo
riprendono ciò che accade intorno, trasforma tutti in performers e sembra essere un’ inversione importante rispetto alla
fruizione stereotipa dell’arte (tanto discussa quanto, alla fine, sempre
ribadita) e dei suoi meccanismi produttivi. In altri termini la performance è
praticata poiché è un “metodo” per attivare la circolarità di vita al di là dei
sistemi chiusi della rappresentazione ma soprattutto al di là degli stessi recinti
specialistici: la performance site
specific, quindi, come (riprendendo una delle piste interpretative offerte
dai Performers di Luisa Valeriani,
Meltemi 2009) autocostruzione identitaria dinamica e conflittuale.
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